Grazie a un contorto ma abbastanza frequente meccanismo di circolazione di vecchie cose online (stavolta via Reddit, credo) ho da poco recuperato un breve articolo scritto nel 2011 da Gene Weingarten, storico giornalista del Washington Post, due volte vincitore del premio Pulitzer negli ultimi otto anni (è l’autore, tra le altre cose, di quel lungo e apprezzato articolo sui bambini dimenticati in macchina e sui genitori di quei bambini). Curioso – ed emblematico, ma non so bene di cosa – che lo stesso Weingarten non sia consapevole del perché questo suo vecchio articolo del 2011 (una lettera a uno studente di giornalismo) sia improvvisamente riemerso nelle ultime ore.
Can someone explain how a 4-year-old screed against "branding" in journalism is suddenly now screaming at us again? http://t.co/jA0vnYLf6R
— Gene Weingarten (@geneweingarten) 15 Giugno 2015
Ho pensato di riportarlo qui per intero, tradotto, perché tratta di giornalismo e di crisi delle vendite dei giornali (per chi li vende) e di crisi dei modelli di business in generale; ma soprattutto perché credo racconti un pezzo della storia recente di tantissimi professionisti che – molti per necessità, ma magari a qualcuno piace anche e sta bene – trattano quotidianamente sé stessi e il loro lavoro come qualcosa da promuovere e da “vendere” online, in un ingente mercato senza divisioni e un’agguerrita competizione senza confini ben definiti. Che ne siano consapevoli oppure no, cercano di “costruire un loro brand”, per dirla con le parole usate nell’articolo.
Caro Leslie,
sono onorato che tu abbia scelto me per la tua tesi di laurea in giornalismo. Seguendo la richiesta del tuo docente, hai scelto di inviare a me la e-mail in cui chiedi in che modo io “abbia costruito il mio personale brand nel corso degli anni”. Questo articolo è la mia risposta. Il miglior modo per fabbricare un brand [letteralmente: “marchio”] è prendere un pezzo di ferro malleabile di un metro circa e arroventarne un’estremità; quindi adoperarlo energicamente sulle natiche del docente che ti ha suggerito questa domanda.
Dal punto di vista finanziario sono tempi molto difficili per la nostra professione, Leslie, tempi che mettono alla prova il nostro carattere, ed è deprimente scoprire che le scuole di giornalismo rispondono a questa sfida sollecitando i loro studenti a “mettersi sul mercato” come fossero Pringles.
Lo vedo anche io, quello che sta succedendo. I media sono impegnati in una frenetica, degradante operazione di risparmio e, allo stesso tempo, di conquista dell’attenzione dei lettori. È una situazione pericolosa: i giornali che impiegavano le proprie risorse per deporre dittatori e scovare la corruzione ora le utilizzano per pubblicare fotografie di gattini dei lettori. Questa tendenza è chiamata “user generated content” [contenuto generato dagli utenti]. (Sì, secondo il nuovo lessico, i “lettori” sono in qualche modo diventati “utenti”: come se nel tentativo di assuefare le persone al nostro prodotto avessimo aggiunto della droga. E in un certo senso lo siamo anche noi, assuefatti. Compiacere, così come compiacersi, può creare dipendenza, e questo è un male).
I testi che divulgano una notizia o esprimono un’opinione un tempo si chiamavano “articoli” o “column”, ma ora se ne parla universalmente in termini di “contenuti”. È come se tutte le nostre parole fossero diventate materiale diafano di riempimento, lanugine biancastra all’interno di cuscini di decorazione.
I giornali davano ai lettori ciò di cui noi credevamo loro avessero bisogno. Ora, in preda alla disperazione, diamo loro ciò che crediamo essi vogliano. E, a quanto pare, quello che crediamo essi vogliano è roba allegra, iperbolica e scema: che è il motivo per cui in anni recenti i giornali di tutto il paese hanno rimpiazzato sezioni chiamate, per esempio, “Punto di vista” con sezioni web multipiattaforma, predisposte per la condivisione online, chiamate, chessò, “Wheee!”, piene di link verso immagini di gatti con testi divertenti.Stiamo lentamente ridefinendo il nostro mestiere in modo che non sia più una vocazione ma un prodotto. Da questa deplorevole tendenza alla commercializzazione emerge la parola di cui mi chiedevi: “branding”. Facciamo un passo indietro, Leslie, e lasciamo questa espressione a macerare nella sua salsa puzzolente. Meditiamo sul suo significato e sul peso devastante delle sue implicazioni.
Quando ero un giovane ambizioso giornalista, negli anni Settanta, pensavo a me stesso come a un superuomo, un invincibile guerriero della verità e della giustizia – anche se, riguardandomi oggi nelle vecchie fotografie, parevo più una donnola smagrita, un tipo timido e vestito male. I miei obiettivi, ad ogni modo, erano inequivocabili ed eroici: 1) Procurarmi grandi storie che rendono il mondo un posto migliore. 2) Diventare famoso. 3) Attrarre giovani donne con occhi da cerbiatto, che mi sussurrassero “Prendimi!”.
Notare l’ordine. Prima il lavoro.
Ora, il primo obiettivo sembra essere l’autopromozione – la parte della fama, il “brand”. Questo perché sappiamo che, in questa frenetica battaglia per l’attenzione a tutti i costi, l’attributo più premiato è l’ubiquità rumorosa, non il talento. È per questo che Snooki – quella del reality Jersey Shore, molto probabilmente una deficiente, in senso letterale – è autrice di un best-seller. È per questo che le superstar dei media di oggi non sono più persone come Bob Woodward, che diffondono grandi storie, bensì persone come il commentatore televisivo Bill O’Reilly, che fanno baccano su quelle storie.
Tutto quello che ti ho appena detto, Leslie, è chiaro a chiunque sia nel giornalismo da un po’ di tempo. Se non lo hai letto prima d’ora, probabilmente è perché la maggior parte di noi non ha avuto il tempo di scriverlo. Eravamo troppo impegnati a costruire il nostro brand.
Condivido diverse cose dell’analisi contenuta in questa lettera di Weingarten a uno studente di giornalismo. Mi interesserebbe per esempio approfondire una parte laterale e “antropologica”, le implicazioni di questa vicenda dal punto di vista umano: comprendere se, come e quanto questa tendenza all’autopromozione di sé stessi e all’autocompiacimento stia modificando il nostro rapporto con gli altri e alterando percezioni e sensibilità all’interno della comunità in cui viviamo.
C’è almeno una cosa però che trovo ampiamente discutibile: non è espressa esplicitamente ma mi sembra sottintesa nella parte in cui Weingarten contrappone l’“ubiquità” al “talento”. Premesso che le due qualità potrebbero non essere in conflitto, mi pare che la tesi di fondo sia comunque che questo stato attuale delle cose, rispetto a un presunto stato di cose precedenti, favorisca un sistema di riconoscimento e premiazione della visibilità e popolarità piuttosto che del merito individuale. E che invece una volta il merito fosse, rispetto alla visibilità o ad altri attributi, un criterio evidentemente più rilevante nella sorte di un aspirante giornalista (ma questo stesso argomento viene spesso tirato in mezzo per un mucchio di altre professioni).
Ecco, io forse non sono abbastanza anziano per dirlo ma di questo sono molto poco convinto. Sono di quelli che credono che tantissime difficoltà di oggi non siano conseguenze deleterie della “battaglia per l’attenzione” imposta dai nuovi mezzi dell’informazione, ma semmai l’effetto devastante di un insieme di perversioni, negligenze, ingiustizie sociali e scarsa lungimiranza, esistenti e perpetuate da molto tempo prima dei gattini e di Facebook. Pur con le dovute e rilevanti differenze tra paesi tanto diversi come Stati Uniti e Italia, dubito che un sistema in cui merito e talento fossero un criterio regolare e prevalente di selezione potesse farsi trovare talmente impreparato a Internet e all’apertura delle frontiere.
Non credo che qui un tempo fosse tutto Woodward e Bernstein, né che ogni aspirante giornalista di allora aspirasse a questo più di quanto non aspiri a questo un aspirante giornalista di oggi. Forse ieri era possibile provarci all’interno di un sistema di tutele e garanzie che oggi non ci sono più (e non è detto che sia un male, se quelle stesse tutele non hanno nel tempo fornito a chi ne godeva la sopravvivenza che dovevano assicurare). Ora ci si arrangia, diciamo. E trovo anzi apprezzabile, nei casi in cui si verifica, il tentativo di “migliorare il mondo” (o intanto mostrarlo, e poi si vede) nella consapevolezza che nessuno ti pagherà per questo, ma semmai ti pagherà per fare altro mentre fai anche quello.
A giudicare dal racconto generale di come stanno le cose, mi sembra già tanto. Se anteporre l’obiettivo numero 2 di Weingarten (la fama, il “brand”) è necessario, o può anche semplicemente tornare utile, per salvare l’obiettivo numero 1 (le “grandi storie”), cambiare l’ordine riuscendo a salvare tutti i punti mi sembra già tanto. Senza considerare che per moltissimi professionisti – oggi sicuro, ma forse da sempre – esiste un quarto obiettivo, magari meno nobile ma impellente, tralasciato dal giovane Weingarten.
• Migliorare il mondo.
• Diventare famoso.
• Attrarre giovani donne con occhi da cerbiatto.
• Pagare le bollette.
Poi se ne può anche parlare a lungo e a fondo, se sia il caso oppure no di finanziare pubblicamente un certo tipo di attività d’informazione, dopo aver stabilito dei criteri condivisi per la definizione di quell’attività (la discussione sui fondi all’editoria è stata riproposta spessissimo e rumorosamente negli ultimi anni ma, per quello che mi è capitato di leggere, mi pare una questione ancora sostanzialmente inesplorata sul piano teorico). Non mi è perà neanche tanto chiaro se questa sia davvero una possibile soluzione, oppure parte del problema.
Metti che davvero dividiamo i tornei – quello dei finanziati e quello dei “brandizzati” – e poi i finanziati la “battaglia per l’attenzione” la perdono uguale. Che si fa poi? Potrebbe succedere? È già successo?