Una persona a cui sono molto legato, la cui generosità e sensibilità ho l’opportunità e la fortuna di conoscere da alcuni anni, mi ha descritto la sua reazione alla visione della fotografia del cadavere del bambino siriano trovato mercoledì 2 settembre su una spiaggia di Bodrum, in Turchia, mostrata e discussa da diverse ore sui giornali di mezzo mondo. «Non mi ha fatto alcun effetto», mi ha detto dopo un breve silenzio, con un imbarazzo sincero ma misurato, e con una spontaneità che probabilmente avrebbe timore di mostrare in una conversazione con uno sconosciuto, per paura dell’idea che quello sconosciuto potrebbe farsi di lei.
Il bambino di quella fotografia si chiamava Aylan Kurdi e aveva tre anni. Insieme a suo padre, sua madre e suo fratello aveva lasciato la città di Kobane, in Siria, con l’obiettivo di raggiungere le coste della Grecia (e poi da lì il Canada, dove abitano alcuni parenti). Ma l’imbarcazione su cui si trovava la famiglia Kurdi, insieme a una decina di altri siriani, si è capovolta durante il viaggio in mare al largo delle coste della Turchia: Aylan Kurdi, sua madre e suo fratello sono morti; suo padre è sopravvissuto.
In Siria c’è la guerra. Da oltre quattro anni. E c’è l’Isis, insieme ad altri gruppi, tutti in guerra tra loro. Per questo motivo la famiglia Kurdi scappava da Kobane.
Tutto questo in quella fotografia, scattata dalla fotoreporter turca Nilufer Demir, non c’è. Possiamo dire – e lo diciamo – che è un’immagine che “racconta” molte cose, che “sintetizza”, che “racchiude”: ma la sola cosa che quella fotografia mostra è il corpo di un bambino morto, presumibilmente annegato. Parto da questa considerazione preliminare, per cercare di spiegarmi perché una persona della cui sensibilità non ho dubbi possa non essere significativamente turbata da quella fotografia. Allora mi sono dato una spiegazione, precaria e provvisoria ma per me utile a cercare di capire le ragioni che mi inducono a ritenere non deplorevole, e men che meno cinica, la reazione di chi non sia rimasto impressionato dalla fotografia.
Quasi ovunque, sui siti di news che hanno scelto di farlo, questa fotografia è stata mostrata non con una didascalia ma con una presentazione, più o meno ampia, che di fatto l’ha sottratta dal consueto flusso delle informazioni. La modalità con cui è stata mostrata non attiene alle tecniche del racconto di una storia in cui l’immagine sia parte della storia: per molti in questo caso la storia era la fotografia in sé, se fosse il caso di mostrarla oppure no. La questione etica e deontologica prima della storia. Persino chi ha scelto di non mostrare la fotografia ma di parlarne comunque – contribuendo peraltro ad accrescere la curiosità – non l’ha trattata come una storia ma come un tema di discussione per addetti.
E quindi ecco la prima spiegazione che mi sono dato: credo che tutto questo girarci intorno, prima di mostrarla, abbia inevitabilmente e pesantemente condizionato la percezione di questa fotografia. Credo che in molti abbiano visto questa foto con il casco, a guardia alta, pronti a rimanere “urtati” dalla fotografia: è molto diverso dalla percezione che invece devono averne avuto i pochi addetti che si sono imbattuti nella fotografia prima che questa cominciasse a circolare dappertutto con avvertimenti e raccomandazioni, e prima che avvertimenti e raccomandazioni ne coprissero altri significati.
E dato che un’immagine – contrariamente a quanto sostiene un luogo comune riguardo la presunta autoevidenza della fotografia – non “parla” affatto da sé, tutto ciò che viene detto a margine di quell’immagine è molto importante, perché ne determina aspetti fondamentali della percezione e della comprensione collettive. Parlarne da subito in quei termini, usando cioè il registro stilistico della foto da mostrare-o-non-mostrare-?, finisce per compiere contro quella fotografia un’assurda ingiustizia: la iscrive nell’agguerritissimo campionato delle foto-che-urtano-la-vostra-sensibilità, sottolinenandone aspetti formali che invece non sono la parte rilevante della storia.
E dal punto di vista di un lettore abituato da anni al peggio del peggio del catalogo delle foto-che-urtano-la-sensibilità (abituato o per averle viste o per averne sentito molto parlare, che è un modo di vederle pure quello), la fotografia del corpo senza vita di un bambino di tre anni sulla battigia ha ragione di essere presentata in quei termini? Forse no. Forse ha ragione il vice editor fotografico del Los Angeles Times, Kim Murphy, quando spiega che questa fotografia anzi potrebbe aver superato l’asticella proprio per il suo non essere troppo violenta:
«Ci capitano un sacco di fotografie, soprattutto tra quelle che tocca a me revisionare, che poi non mostriamo. Una decapitazione compiuta dall’ISIS. Il video in soggettiva di un poliziotto che spara a qualcuno a bruciapelo alla testa. Le immagini della sparatoria al cinema Aurora in Colorado. Quelle di orribili scontri in Africa a colpi di machete. Per me solitamente non presentano dubbi: quando abbiamo foto di cumuli di corpi, a distanza ravvicinata, e corpi mutilati, no, non c’è alcun bisogno di condividerle. Usiamo le parole. Ma questa non era ripugnante. Non era particolarmente violenta. Non era offensiva in alcun modo. Era solo un bambino disteso su una spiaggia. Morto. E per colpa di un sacco di persone».
Allo stesso modo la pensa anche il photo editor Christian Caujolle, che scrive:
Attenzione, nessuna di queste foto che sono state rapidamente diffuse, pubblicate e condivise, è violenta. Al contrario, hanno qualcosa di commovente, sia per la loro distanza rispettosa sia per l’assenza totale di spettacolarizzazione che anima l’inquadratura. Quello che è violento, molto violento, intollerabile, è la situazione alla quale ci rimandano e sulla quale ci avvertono.
Ma a sostituire la “spettacolarizzazione” assente nella fotografia è stata, mi pare, la spettacolarizzazione alimentata dal dibattito sproporzionato sull’opportunità di pubblicare o no la fotografia. Sproporzionato perché la fotografia, appunto, non è violenta in sé ma è violenta per il discorso a cui rimanda, e che forse era l’unico discorso appropriato da sviluppare. Quindi è questa una delle spiegazioni che mi sono dato: quella fotografia non ha fatto alcun “effetto” a chi era stato preparato a vedere un altro genere di foto. Probabilmente quelle di cui parla Murphy del Los Angeles Times.
È come se un amico si interrogasse a lungo riguardo l’opportunità o meno di raccontarti una cosa che – forse, magari, boh – sarebbe meglio lui tenesse per sé, per tutta una serie di motivi suoi personali di cui a te non frega niente. Tu lo ascolti, cominci a prepararti, a preoccuparti e a immaginare chissà cosa, e alla fine lui quella cosa te la dice. Ed è una cosa molto importante, e avevi fatto bene a preoccuparti, ma comunque alla fine ti chiedi pure: c’era bisogno del pistolotto introduttivo? era proprio il caso?