20 canzoni del 2017

Una lista delle canzoni che ho ascoltato più volte, tra quelle pubblicate nel 2017.
Come ogni anno i limiti della selezione riflettono quelli dei miei gusti musicali, e dovrei probabilmente trovare significativo, se non allarmante, il fatto che alcuni tra questi gruppi musicali siano semisconosciuti o non più esistenti. Qui c’è la playlist, per quelli che usano Spotify.

“Do I Have to Talk You Into It” – Spoon, Hot Thoughts

Gli Spoon suonano più o meno da vent’anni, e da circa dieci hanno un discreto successo commerciale. Sono di Austin, Texas, e mi pare di capire che qui non siano popolarissimi (a novembre scorso però hanno suonato al Santeria Social Club, a Milano). Scrivevo tempo fa a un amico che fanno un rock molto rude, pieno di schitarrate brevi e riff sincopati ma sempre abbastanza melodico, altrimenti a quelli come me non piacerebbe. Ogni tanto mollano le chitarre del tutto e fanno delle gran cose, come “Inside Out” nel disco di tre anni fa o “I Ain’t The One” in quest’ultimo (Hot Thoughts, che in generale è molto piaciuto). Mi rendo conto di essere diventato un loro fan, anno dopo anno: non mi perdo niente e mi piace più o meno tutto, cioè ho perso qualsiasi obiettività. Di Britt Daniel, leader e cantante del gruppo, mi strapiace il timbro vocale – una specie di urlo modulato – e il suo modo di pronunciare le parole mettendoci dentro un sacco di palatali (come nel titolo di questa, “d’uah-èh t-tòkyu igliuh-èh!”). Ci aprono i concerti, con questa, e viene benissimo: attacca solo la tastiera.

“Mercury” – Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly, James McAlister, Planetarium

Chi conosce Sufjan Stevens sa che all’inizio Sufjan Stevens si era cacciato in testa di incidere un disco per ogni Stato americano. Per ora ne ha fatti solo due, di questa serie dedicata agli Stati americani (Michigan e Illinois), ma di cose bellissime ne ha messe anche nei dischi spuri, che nel frattempo sono diventati più numerosi di quei due. Insieme ad altri musicisti e a Bryce Dessner (chitarrista dei The National), col quale collabora stabilmente da diversi anni, ha pubblicato quest’anno uno dei suoi consueti dischi tematici (concept album, si dice ancora?) ma invece che sfoltire la lista degli Stati americani è passato direttamente al Sistema Solare e oltre. La canzone dedicata a Mercurio è l’ultima del disco e anche una delle più orecchiabili.

“Just Me” – Fufanu, Sports

I Fufanu sono un trio techno di Reykjavík, con un cantante che di nome fa Kaktus, e Sports è il loro secondo disco. La loro popolarità è in crescita, si fa per dire, e nel 2015 hanno suonato a Hyde Park in occasione del concerto dei Blur. Kaktus ha anche collaborato con Damon Albarn per alcune sue cose recenti da solista (Everyday Robots). “Just Me” è la canzone più truzza che ho ascoltato – a ripetizione – nel 2017.

“Elegy” – Leif Vollebekk, Twin Solitude

Il più bel disco del 2017 e la migliore scoperta. È un semisconosciuto cantautore canadese originario di Ottawa, con una laurea in filosofia e una bella voce. È il suo terzo disco, e funziona: è molto lento e molto omogeneo, e ci sono altri gran bei pezzi come “Into the Either” e “East of Eden”.

“Get in My Car” – BRONCHO

Sono di Norman, Oklahoma. Una loro canzone di tre anni fa, “Class Historian”, che mi aveva stufato molto più rapidamente, era girata parecchio anche su qualche radio italiana. “Get in My Car” conferma che con i motivetti orecchiabili al primo ascolto ci sanno fare.

“Broken Record” – Alex Ebert

È una canzone pubblicata quest’anno da Alex Ebert, quel cantante travestito da santone che fa da leader al gruppo Edward Sharpe and the Magnetic Zeros, venerato da una nutrita folla di millennials fricchettoni. Anche da solista ha fatto e continua a fare gran belle canzoni, perché ha talento e una voce molto particolare. Di questa “Broken Record” mi piace tanto l’assolo di sassofono sulla base di synth, in coda al pezzo.

“Ondulation” – Burning Peacocks

I Burning Peacocks, sconosciuto duo pop di Parigi, meriterebbero una menzione già per il solo fatto di essere composti al cinquanta per cento da una delle donne più belle del pianeta. Alma Jodorowsky è un sacco di cose: una famosa modella francese, testimonial per Chanel, Lancôme e numerosi altri marchi famosi; un’attrice; la nipote di un noto regista cileno, studiato nei corsi di cinema. Da qualche tempo si è anche messa a cantare e suonare con applicazione, come a un certo punto viene in mente di fare a certe attrici molto belle – e molto più famose di Alma Jodorowsky – che per diletto provano a cimentarsi in altre discipline. Insomma si è iscritta a quel campionato con Scarlett Johansson, che una volta ha inciso un disco con il suo amico cantautore Pete Yorn, e di Zooey Deschanel, che canta con il suo amico cantautore M. Ward, nel duo She&Him. I Burning Peacocks cantano qualche canzone in francese e qualcuna in inglese. Come capita spesso in questo genere di duo, l’altro è quello incaricato della parte musicale dato che, solitamente, fa il musicista a tempo pieno. Solo che quello di Alma Jodorowsky – David Baudart – non lo conosce nessuno. Quest’anno hanno pubblicato una canzone buona per l’estate, senza prendersi troppo sul serio, e lei ha anche diretto il videoclip. Nel 2016 avevano pubblicato il loro primo disco, secondo me molto bello, pieno di bei suoni (Love Réaction, del tutto ignorato dalla critica).

“Up All Night” – Beck, Colors

Dal nuovo disco molto bello e molto piaciuto di Beck, il suo tredicesimo. Devo aver letto da qualche parte che è troppo commerciale, aggettivo che in ambito musicale sento pronunciare prevalentemente in senso dispregiativo e da persone con molta autostima.

“Don’t Think Twice It’s Alright (Dylan Cover)” – Chris Thile & Brad Mehldau, Chris Thile & Brad Mehldau

Chris Thile è un bravissimo mandolinista californiano, studia bluegrass e classica da quando aveva cinque anni, ed è anche cantante e leader del gruppo Punch Brothers. Brad Mehldau è uno dei più apprezzati pianisti jazz contemporanei, conosciuto anche fuori da quel giro per alcune sue cover di famose canzoni rock. Il fatto che anche in questo caso la linea melodica principale sia nota a tutti – “Don’t Think Twice It’s Alright” di Bob Dylan – permette, anche a chi non ascolta abitualmente questo genere, di apprezzare le improvvisazioni di entrambi.

“It’s Not Who You Are” – Delay Trees, Let Go

Questi mi sa che è già tanto se li conosciamo io e altri dieci, amici e parenti loro esclusi. È un gruppo indie pop finlandese, anzi era: non ho manco fatto in tempo a informarmi ché già si sono sciolti. All’inizio dell’anno avevo ascoltato molto “It’s Not Who You Are”, per quei riff di chitarra puliti, sfigati e tremendamente inattuali. Cose che io di solito apprezzo.

“Chateau” – Angus & Julia Stone, Snow

Angus Stone e Julia Stone sono due cantanti australiani, fratello e sorella, molto popolari nel loro paese. Suonano e cantano insieme da molti anni, e sono ormai abbastanza mainstream anche in Europa (vanno molto forte in Francia e in Olanda), dove inizialmente si erano fatti notare soprattutto per alcune cover di canzoni di gente molto più tosta e famosa di loro due. Io detesto il timbro vocale di lei ma apprezzo quello lamentoso e insofferente di lui. Alcune canzoni del loro disco del 2014, Angus & Julia Stone, mi erano piaciute parecchio. Questo è più debole ma “Chateau” funziona (mi piace il finale ripetitivo: Throw me a bone… Don’t go wasting your time…).

“Everything Now” – Arcade Fire, Everything Now

Ai critici il disco non è piaciuto. Trovano i testi troppo fiacchi, e dicono che le canzoni belle sono troppo poche, e quelle brutte troppo numerose e troppo brutte. Ma in almeno una canzone, “Everything Now”, io ho trovato quel tipo di pregevole ammucchiata che in genere mi aspetto di trovare in una canzone degli Arcade Fire: tanti cori, tanti strumenti, una linea principale orecchiabile e ripetitiva.

“Over Everything” – Courtney Barnett & Kurt Vile, Lotta Sea Lice

Kurt Vile, ex membro dei The War on Drugs, è un chitarrista e cantante di successo che si è ritagliato un suo spazio nella musica indie attraverso una decennale carriera da solista. Quest’anno ha pubblicato un disco di belle canzoni con Courtney Barnett, una giovane e apprezzata cantautrice australiana che canta come una che canta sopra una canzone che sta ascoltando solo lei con gli auricolari. A pensarci bene anche lui canta un po’ così, in questo modo apparentemente impreciso e distratto, seguendo una metrica tutta sua e una linea che un po’ sta sulla nota e un po’ no. A me piace molto ma capisco quelli a cui dà ai nervi.

“You Never Loved Me” – Aimee Mann, Mental Illness

Aimee Mann è quella della colonna sonora di Magnolia, quel film di Paul Thomas Anderson che tra non molto sono vent’anni che è uscito (ma come può essere?). Che lei sia nota principalmente per le musiche di quel film ci sta, ma che sappia scrivere canzoni lo aveva dimostrato prima di quel film e lo ha ampiamente dimostrato anche dopo. Mental Illness, il suo nono, tristissimo disco da solista, è una meraviglia di chitarre folk e controcanti armonizzati.

“Caitriona” – Protomartyr, Relatives In Descent

Li conosco e ascolto con piacere solo da quando è uscito il loro quarto disco, Relatives In Descent. È post-punk, dice, ma ero convinto che i Protomartyr – gruppo di Detroit attivo da una decina di anni – potessero piacere anche a un gruppetto di miei amici metallari, coi quali passo ore a cercare pezzi che possano piacere a loro quanto a me, e invece niente. Dei Protomartyr mi piace molto lo stile baritonale del cantante, Joe Casey, che trovo anche poco comune per questo rumoroso genere musicale. E suppongo che sia anche per questa cosa della voce baritonale, che molti critici insistono nel descriverli citando Interpol e Joy Division.

“Another Century” – The Church, Man Woman Life Death Infinity

I The Church sono il gruppo australiano a cui si deve una delle canzoni più note degli anni Ottanta, “Under The Milky Way”, che continua a girare un po’ dappertutto sia per merito del film Donnie Darko sia perché il gruppo ha sempre avuto una predisposizione pienamente favorevole alla vendita dei diritti per scopi pubblicitari. «È una canzone casuale, che ho scritto casualmente, che casualmente è diventata un singolo e casualmente un grande successo. Ho scritto duemila canzoni, e grazie a dio almeno una ce l’ha fatta!», ha detto una volta il cantante e leader Steve Kilbey. Intanto i The Church continuano a suonare da trentasei anni, e certe canzoni del loro ultimo disco (Man Woman Life Death Infinity) sembrano scritte e suonate più o meno trent’anni fa e pubblicate solo ora. Il video di “Another Century” è una cosa orrenda – tipo effetti Windows Media Player 97 – ma la canzone ha un ritornello efficace e liberatorio, e una struttura e un tappeto di suoni suggestivi per quelli mentalmente intrappolati come me in quel genere di sound.

“Wandering Aengus” – Johnny Flynn, Sillion

Già anni fa Johnny Flynn era un ragazzino di quelli a cui basta prendere una chitarra, suonarla e cantarci sopra, e capisci subito che lo fa di mestiere. Ha qualcosa che aiuta molto, in questo campionato (The Tallest Man On Earth è un altro): l’abilità tecnica di incastrare con ammirevole naturalezza la sua voce e l’arpeggio, e renderli un suono unico. Ha trentaquattro anni, è inglese di origini sudafricane, e di recente ha anche recitato da protagonista in una serie televisiva (Lovesick, su Netflix). Quest’anno ha pubblicato il suo quinto disco, non il suo migliore, ma c’era qualcosa di buono anche stavolta.

“10 Minutes 10 Years” – Tennis, Yours Conditionally

Sono moglie e marito, Alaina Moore e Patrick Riley, di Denver, in Colorado. Si sono conosciuti a un corso di filosofia all’università, suonano insieme dal 2010, e da allora hanno pubblicato quattro dischi. Nel 2017 sono uscite un mucchio di loro canzoni nuove, in un disco e in un EP. Lei certe volte canta come se imitasse Madonna (“No Exit”), però le viene bene, e in generale funzionano: qualche volta azzeccano anche il singolo (come “Origins”, che piacque moltissimo, nel 2011).

“Sweet” – Cigarettes After Sex, Cigarettes After Sex

Una delle più belle scoperte del 2017. È un gruppo di Brooklyn – guidato da Greg Gonzalez, cantante e chitarrista nato e cresciuto a El Paso – che fa musica molto lenta, perfetta per deprimersi. Si riconosce facilmente dal timbro vocale di lui e dal suono della chitarra molto “Wicked Game” di Chris Isaak. Aveva pubblicato un EP nel 2012, e in questo primo disco – molto, molto gradevole – ci sono alcune canzoni che giravano già da un paio d’anni.

“Beam” – Absynthe Minded, Jungle Eyes

Gli Absynthe Minded sono un gruppo folk belga di cui anni fa ascoltavo in continuazione alcune canzoni sconosciute ma riuscitissime (“Heaven Knows” e “Envoi”, una specie di copia illegittima di “Hurricane”). Mi ha fatto piacere scoprire che nel frattempo, pur rimanendo sostanzialmente sconosciuti, non si sono sciolti e anzi hanno pubblicato qualche altro disco. Jungle Eyes è il sesto.

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