M. Night Shyamalan, uno di noi

M. Night Shyamalan (il suo nome è Manoj Nelliyattu Shyamalan: è nato in India ed è cresciuto negli Stati Uniti, in Pennsylvania) è il regista famoso per aver girato Il Sesto Senso, alla fine degli anni Novanta. Era il suo primo film con un’ampia distribuzione internazionale, e fu un successo clamoroso e planetario, che inevitabilmente fissò in un punto molto in alto l’asticella delle aspettative rispetto a tutti i suoi lavori futuri. Nei quattro anni successivi girò tre film mediamente apprezzati dalla critica e dal pubblico (Unbreakable, Signs e The Village), prima di una serie di sostanziali insuccessi generata da incassi al di sotto delle aspettative per film criticabili, per usare un eufemismo (Lady in the Water, E venne il giorno, L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth).

A quel punto anche uno come Shyamalan, la cui reputazione era intanto passata dal livello regista di blockbuster al livello autore di nicchia (quando gli diceva bene), ha cominciato a ricevere rifiuti da parte dei grandi distributori. Di quel complicato periodo di insuccessi ha parlato molto apertamente in un’intervista recente con Vulture, sito di cinema e cultura pop del New York Magazine, in occasione della prossima uscita del film Glass (18 gennaio 2019). È un’intervista molto lunga e molto piena, in cui parlando di cinema Shyamalan sembra parlare anche di tante altre cose: dei nostri tempi, delle insicurezze di ciascuno di noi, della ciclicità di successi e insuccessi, e dei diversi modi di riconoscere e accettare la fortuna nel suo senso etimologico più profondo.

Dopo L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, i suoi due film più costosi di sempre, Shyamalan è tornato a lavorare a progetti meno ambiziosi e dal budget molto più contenuto. E mica tanto per scelta, dato che faticava ormai a trovare produttori ancora disposti a lavorare con lui. La produzione di The Visit, film del 2015 costato cinque milioni di dollari, fu cofinanziata da lui stesso con un’ipoteca sulla casa. Sei settimane dopo la fine delle riprese mostrò una prima versione del film a una serie di distributori cinematografici riuniti in una sala a Los Angeles.

Fu una cosa da matti mostrarlo così precocemente. Ma pensai: ‘venderò il film subito così saprò che non ci rimetterò dei soldi, che la mia carriera non sarà finita e che non dovrò vendermi la casa’. Perché, ovviamente, chi non avrebbe voluto distribuire un thriller scritto e girato da me, no? Bene. Nessuno. Nessuno voleva un thriller fatto da me, evidentemente.

Da quel fondo non si poteva che risalire, racconta Shyamalan, che lavorando pesantemente sulle musiche e sul montaggio di The Visit riuscì a farne un film diverso. Lo presentò poi alla Blumhouse, giovane società statunitense nota per la produzione di apprezzati horror a budget ridotto (Get Out, Insidious, Paranormal Activity, Sinister, Ouija), e quelli ne furono entusiasti. Costato cinque milioni di dollari The Visit ne incassò circa 100. Split, il suo film successivo, interpretato da James McAvoy nel ruolo di un uomo con molteplici personalità, ne incassò 280 ed era costato meno di dieci milioni: “quanto il budget per il catering di Avengers: Infinity War”, ci scherza su Adam Sternbergh, autore dell’intervista.

Ed è l’altra parte che trovo più interessante ed eterogenea dell’intervista: meglio far funzionare una cosa piccola che tenerne in piedi, instabilmente e con difficoltà, una molto grande.

Datemi dieci milioni di dollari in più di budget, e questo non farà del Sesto Senso un film migliore. Potrei anzi sostenere che lo renderebbe un film più debole. In generale darei questo consiglio, a tutti i registi: fate il film per la minima quantità di denaro necessaria per realizzarlo.

Di tutta questa intervista ho apprezzato molto non soltanto quello che l’intervista dice di Shyamalan ma quello che Shyamalan, forse inconsapevolmente, finisce per dire un po’ di tutti. C’è quest’uomo – figlio di una coppia di medici indiani emigrati negli Stati Uniti quando lui aveva sei anni – diventato famoso, di colpo e con merito, per una cosa che ha prodotto vent’anni fa. A quella ne sono seguite altre molto attese, anche di discreto successo, ma nessuna che riscuotesse il successo della prima. A un certo punto quest’uomo ha cominciato a fare cose molto marginali e trascurabili, e in alcuni casi inconsistenti e mediocri. Poi quest’uomo, che solo quindici anni prima veniva descritto come “il prossimo Spielberg” in una delle riviste allora più vendute al mondo, perde ogni sponsorizzazione, non “vende” più, arriva a dubitare di sé e dei suoi mezzi, magari teme che tutti abbiano scoperto il bluff. E ritorna al punto di partenza: a dovere in parte investire soldi di tasca propria, mediante ipoteca sulla casa, per continuare a fare il suo lavoro. E va male anche quest’ultima cosa, un’altra volta, finché non ci rimette mano e non la rende accettabile per un nuovo distributore, che investe di nuovo su di lui.
Quindi risale.

E in nessun momento di questo salire e scendere, a quanto pare, quest’uomo ha mai pensato che autocommiserarsi o attribuire ad altri le ragioni dei suoi insuccessi potesse aiutarlo a venirne fuori o a diventare un professionista migliore. Ha soltanto cercato ogni volta di trarne un insegnamento, di rendere migliori le cose migliorabili, scoprendo e accettando tutte quelle che non poteva cambiare.

Newsweek, 5 agosto 2002.
Come passa il tempo.

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