Di cosa parla The Mule (e cosa ci ho visto io)

Da qualche tempo mi capita di apprezzare molto più spesso di prima la fortuna di poter vedere un film senza doverne scrivere per mestiere, e quindi senza dover trattare informazioni di alcun tipo a proposito di quel film. Appena esce quello nuovo di un certo regista, o con un certo attore, o tratto da una certa storia che potrebbe piacermi, cerco di stare lontano da qualsiasi presentazione, recensione o dibattito. E ho smesso di vedere i trailer, che ormai stanno ai film più o meno come i titoli dei giornali agli articoli: nel migliore dei casi dicono già tutto, nel peggiore dicono il contrario. Insomma arrivo in sala che ne so poco o praticamente niente.

Di The Mule sapevo questo, ed era un caso in cui ne sapevo più del solito:

The Mule è un film di e con Clint Eastwood, tratto dalla vera storia di un cittadino statunitense, ex floricoltore ed ex militare della Seconda guerra mondiale, che a più di ottanta anni diventa un corriere della droga negli Stati Uniti per conto di un cartello di trafficanti di uno stato messicano.

Fine.

Ho visto il film. Il giorno dopo ho letto per la prima volta il vecchio articolo di Sam Dolnick sul New York Times Magazine che racconta la storia di Leo Sharp, l’uomo a cui sono ispirati i fatti del film. Per ultimo ho recuperato il trailer (non li guardo più, prima). E mi sono chiesto: avrei apprezzato ugualmente il film se non avessi fatto tutto in questo ordine? Magari sì. O magari meno.

Di sicuro – ed è una cosa per cui ho apprezzato il film moltissimo – in nessun momento The Mule di Clint Eastwood mi è sembrato il racconto di una storia straordinaria come il trailer e la vicenda vera da cui il film è tratto lascerebbero pensare. A me che ne sapevo così poco è sembrato anzi la descrizione di un contesto americano comune, il racconto simbolico di centinaia, forse migliaia di vite ordinarie sistemate in un modo particolare e tale da generarne una effettivamente singolarissima eppure, in un certo senso, coerente con quel contesto. Poi è anche un film sui conflitti irrisolvibili tra l’etica del lavoro e quella della famiglia, per esempio, e del fallimento di ogni tentativo di legittimare l’una con l’altra (“Non servivano tutti quei soldi per farti volere bene a casa”, dice un personaggio a un certo punto).

Più in generale ho trovato in The Mule quello che anni fa non avevo trovato in American Sniper, un altro film di Eastwood tratto da un’altra storia vera apparentemente molto “singolare” eppure piena di legami con il contesto storico, economico e sociale (e non soltanto militare, predominante nel film) da cui quella storia fu profondamente condizionata. The Mule è quello che anche American Sniper sarebbe potuto essere, trattando la storia di un militare con il PTSD: un film su chi rimane indietro. Come un anziano che non sa utilizzare uno smartphone per inviare un sms o anche solo far partire una telefonata. Indietro come chi, per scelta o per caso, non gode più del sostegno di una rete di solide relazioni familiari e sociali. O indietro come chi, travolto dagli effetti di una grande crisi economica e di una rivoluzione tecnologica epocale, si ritrova senza le risorse – umane, finanziarie, intellettuali: cambia poco – sufficienti ad affrontare quella trasformazione se non attraverso una mutazione eticamente inaccettabile.

Poi è il bello del cinema, ovviamente: che ognuno ci vede un po’ quello che gli pare. E a me The Mule ha parlato di tante cose che non ci sono affatto, in quel trailer che sembra farlo passare per un film sul genere narcotraffico largamente frequentato da serie e film di questi ultimi anni. Mi ha parlato di quanto sia sottile e incerto il confine che tutti i giorni usiamo per stabilire la differenza tra un’azione individuale e una scelta collettiva. E di quanto incerto sia allo stesso modo il confine che usiamo poi per definire le responsabilità e individuare le conseguenze su larga scala, a volte senza tener conto delle condizioni ambientali in cui ogni singolo caso si è verificato, magari derivato a sua volta da ripercussioni ineliminabili di scelte passate che anche prima avevamo ritenuto e definito “soltanto” individuali, sbrigativamente, preservando una collettività estranea a quella devianza.

Uno guarda il film, appunto, e immagina che alla fine ci sia o una brutta fine o una sorta di riconciliazione. E probabilmente – SPOILER – una specie di riconciliazione c’è, ed è la dichiarazione di quest’uomo che alla fine, tagliando corto, ammette i suoi errori di padre, marito e cittadino in ogni sede, pubblica e privata. E in teoria, ammettendo quelle colpe, dovrebbe permettere alla comunità di “salvare” un’etica condivisa, per quanto fragile e provvisoria, e di tracciarne i confini. D’altronde anche altri, magari nelle stesse condizioni affettive, economiche e anagrafiche del protagonista, non sono diventati corrieri della droga. Eppure anche alcuni di quegli altri, in modo del tutto inconsapevole, hanno di fatto tratto benefici o comunque modificato i loro comportamenti in funzione di quella devianza “individuale” a loro ignota, in forme varie e irrecuperabili, e hai voglia a tornare indietro. E insomma, se alla fine di riconciliazione si tratta, è di quelle che mostrano più un fallimento collettivo che un successo del sistema di norme condivise. The Mule non è un film su una sola persona.

Morale: i trailer sono il male.

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2 pensieri su “Di cosa parla The Mule (e cosa ci ho visto io)

  1. lapinsu

    Clint è un maestro, non si può discutere.
    A mio parere questo è il suo film migliore del decennio perchè attraversato da una emotività di rara delicatezza che rende il personaggio di Earl terribilmente umano. The Mule è una storia semplice che però aiuta a riflettere a guardare lontano: una boccata d’ossigeno pure.
    PS: ne ho scritto anche io una recensione. Spero possa piacerti!!!!

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