canzoni 2020

10 canzoni del 2020

Questa tradizionale lista annuale è più scarna del solito: ho ascoltato poca musica nuova, nel 2020. Pochissima. Non che non ne abbiano pubblicata, anzi. È che non ho provato abbastanza curiosità né voglia di scoprire canzoni nuove, temendo peraltro il rischio di legarle a momenti delle nostre vite già indimenticabili senza colonna sonora. E insomma il rapporto tra musica nuova e musica conosciuta, quest’anno, era molto sbilanciato sulla seconda. Anche le poche cose nuove che ho ascoltato sono tutte in quel genere che mi dà sicurezze. Indie-folk e indie-lagne, prevalentemente. La mia comfort zone, direi, se non mi sentissi così scemo a scrivere comfort zone.

Questa è la playlist creata su Spotify.

This Is The Kit – “Coming to Get You Nowhere”
This Is The Kit è lo pseudonimo della musicista inglese Kate Stables e del suo gruppo musicale, attivo dalla fine degli anni Duemila. Collabora spesso con gruppi e musicisti più noti di lei, come The National e Sharon Van Etten. Ma intanto quest’anno ha pubblicato il suo quinto disco con i TITK, Off Off On, dopo le buone recensioni dei loro due dischi più recenti, del 2015 e del 2017. Stables suona vari strumenti a corda ma in genere la tirano dentro soprattutto per la sua voce. “Coming to Get You Nowhere” è una canzone bellissima, quella del disco che mi è rimasta in testa per settimane. Per quella coda splendida, credo, con i fiati e tutto il resto.

Yo La Tengo – “Bleeding”
Non è stato un anno come gli altri. Tante cose non sono andate come avremmo voluto, ognuno ha le sue, mentre il guaio noto e condiviso procurava a chiunque disagi, dispiaceri o dolori. Suppongo che in molti abbiano intanto individuato qualche tipo di prassi per rimanere presenti a se stessi oltre che vivi, poche routine a cui restare ancorati e da cui trarre temporaneo sollievo. Io ascolto gli Yo La Tengo.

Loro suonano da così tanto tempo che, con buona probabilità, chi non li ha mai incrociati prima è perché non ascolta il genere che fanno. Sono tre persone – Ira Kaplan e Georgia Hubley, la coppia che ha fondato il gruppo, nel 1984, più il bassista James McNew, presenza stabile dal 1992 – e sono di Hoboken, piccola città del New Jersey peraltro nota per aver ospitato il primo torneo di baseball ufficiale della storia d’America. E in effetti c’entra una vecchia storia di baseball, di cui Kaplan è appassionato, nella scelta del nome. Dice che nei primi anni Sessanta, per farsi capire in campo da un suo compagno venezuelano che parlava soltanto spagnolo, un giocatore dei New York Mets prese l’abitudine di urlare “¡Yo la tengo!” (“ce l’ho io!”) quando voleva avvisare che c’era lui su quella palla volante ed evitare di scontrarsi con il venezuelano. E a Kaplan questa storia è rimasta impressa.

L’apice della loro popolarità, una popolarità comunque relativa, gli YLT la raggiunsero tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila pubblicando alcuni dischi apprezzatissimi dalla critica e sempre molto amati dal loro pubblico.

C’è qualcosa di placido e molto riconoscibile, nel modo di suonare degli Yo La Tengo, soprattutto nelle loro canzoni più lente, cui si fa presto ad affezionarsi. Ne prendo a esempio una uscita quest’anno – “Bleeding”, nemmeno chissà che pezzo – e che a me fa il solito effetto. Nelle loro canzoni che più apprezzo gli YLT suonano come se non ci fosse molto di programmato, come se fossero tutte demo. C’è Kaplan, il leader del gruppo, che ripete semplici giri di chitarra su queste piene, prolungate linee di basso, e sussurra le parole delle strofe in quel modo suo, come se gonfiasse bolle di sapone. Ho sempre l’impressione che gli Yo La Tengo tirino fuori ogni volta una canzone da qualcosa che non era una canzone e lo è diventata per caso, soltanto perché avevano il registratore acceso. Così. Alla vediamo che ne esce. Non so spiegarlo meglio. Ma ascoltarli a lungo quest’anno, forse per via di questa mia idea nascosta in testa da qualche parte, mi ha dato sensazioni rassicuranti, quasi consolatorie: senti quanto può diventare bella e piacevole una cosa fatta senza badare al risultato, penso. 

Bonny Light Horseman – “Deep In Love” 
Premessa: è un disco folk di canzoni tratte in gran parte da canti secolari della tradizione delle isole britanniche. Lo ha inciso un trio americano nuovo ma formato da musicisti abitualmente impegnati in altri progetti e con discreto successo. Josh Kaufman è un apprezzato polistrumentista di New York che suona principalmente strumenti a corda, spesso per The National. Anaïs Mitchell, forse la più nota dei tre, è una cantautrice folk con quasi vent’anni di esperienza da solista alle spalle e numerosi riconoscimenti. Ed Eric D. Johnson è il cantante e leader del gruppo folk-rock Fruit Bats. 

Convinti a suonare insieme da una serie di amici in comune, hanno pubblicato a gennaio il loro primo disco, il cui titolo coincide con il nome del gruppo: Bonny Light Horseman. È anche il titolo della canzone di apertura: una gran bella versione – tutta chitarre, armonica a bocca e sassofono, e ritornello a due voci – di un canto risalente alle guerre napoleoniche, popolarissimo in Irlanda. Ce ne sono altre belle, come “Jane Jane”, che sembrano uscite da uno dei primi EP dei Fleet Foxes. Ma quella che ho ascoltato di più è “Deep In Love”.

Pearl Jam – “Seven O’Clock”
Dice a un certo punto Eddie Vedder: “this fucked-up situation calls for all hands, hands on deck”. È una delle prime strofe di “Seven O’Clock”, la canzone che ho ascoltato più volte del disco nuovo dei Pearl Jam, l’undicesimo (Gigaton, uscito a marzo). È un testo abbastanza lungo e con riferimenti espliciti alla presidenza Trump – A tragedy of errors, who’ll be the last to have a laugh? – ancora più significative se si pensa a come sono andate le cose in tutto il mondo da marzo in poi. Diciamo che è abbastanza facile leggerci un senso più ampio e una critica a un certo modo di fare le cose e affrontare le situazioni complesse. “Seven O’Clock” è una canzone sulle difficoltà di resistere alla tentazione di affrontare le cose in quel modo, da parte di chi di solito non fa in quel modo, e del rischio di finire “a menare pugni all’aria senza più bersagli da colpire”. E non è proprio il caso: “c’è molto da fare”. 

The The – “I Want 2 BU”
Matt Johnson è il cantante e fondatore del gruppo inglese The The, una cosa che è sempre stata più vicina a un progetto da solista che a un gruppo. Nel disco del 1983 Soul Mining, da cui è tratta la canzone probabilmente più famosa dei The The (“This Is The Day”), era molto presente – oltre all’armonica a bocca – uno strumento elettronico prodotto da Suzuki e popolare negli anni Ottanta: l’omnichord. Utilizzando quello stesso strumento Johnson ha scritto e pubblicato una nuova canzone ad agosto scorso, “I Want 2 BU”, che è anche nella colonna sonora del film Muscle, il terzo del regista Gerard Johnson, fratello di Matt. 

Fleet Foxes – “Can I Believe You”
A settembre i Fleet Foxes hanno pubblicato Shore, il quarto disco della loro carriera, cominciata alla fine degli anni Duemila con il clamoroso successo del singolo “Mykonos”, contenuto nel loro secondo EP. In quello stesso anno, il 2008, pubblicarono il primo disco, Fleet Foxes, pieno di canzoni memorabili e magnifiche ancora oggi. Non si sono mai allontanati da un loro stile riconoscibilissimo, da alcuni definito “barocco” per il tipo di melodie che compongono e di strumenti che utilizzano. E il disco del 2020 è forse quello che più si avvicina alle loro prime cose. 

C’è questo pezzo potente e corale, quasi “trionfale” per l’andamento che prende da subito: “Can I Believe You”. Sean Pecknold, cantante e leader del gruppo, ha spiegato che per i cori sono state utilizzate circa 500 voci di fan dei Fleet Foxes su Instagram, ciascuno dei quali invitato da Pecknold a registrare il ritornello della canzone. Di recente i Fleet Foxes ne hanno registrato una splendida versione per il programma televisivo del comico Stephen Colbert. Suonavano in diretta dalla chiesa episcopale della Santa Trinità a Brooklyn, con il coro Resistance Revival, tutti distanziati e con mascherina. 

Kevin Morby – “Valley” 
Lui è un cantautore americano di trentadue anni, che ascolto volentieri e spesso da qualche anno perché ha una bella voce – ricorda certe volte il timbro di Bob Dylan – e scrive belle canzoni con pochi strumenti. È cresciuto a Kansas City, dove è tornato a vivere di recente dopo un lungo periodo trascorso più o meno stabilmente a Los Angeles. A ottobre ha pubblicato il suo sesto disco, Sundowner.

Travis – “Fall Down”
La pandemia ha stravolto i piani di chiunque, compresi quelli dei Travis, gruppo che notoriamente dedica ai video delle canzoni una certa attenzione. E quindi è finita che per il nono disco del gruppo – 10 songs, uscito a ottobre – Fran Healy, cantante e leader dei Travis, si è fatto aiutare da suo figlio Clay, quattordicenne, ad allestire al computer il video del primo singolo, “A Ghost”, e poi anche quello del secondo, “Fall Down”. All’inizio lavoravano in stanze diverse, a distanza, senza mai incrociarsi: Healy era in isolamento dalla famiglia dopo aver concluso le registrazioni con gli altri membri del gruppo.

Sean Rowe – “Heartbreak Road” 
Sean Rowe, quarantacinquenne cantautore di New York, è una delle voci indie-folk più riconoscibili ma forse meno famose dell’ultimo decennio. Dai tanti che ancora lo seguono si fece conoscere nel 2011 con il suo disco Magic, in cui raccolse molti dei pezzi che da anni suonava dal vivo per locali. Per la produzione del suo disco più recente, New Lore, utilizzò 40 mila dollari che aveva chiesto e raccolto su Kickstarter. Quest’anno ha pubblicato un EP di quattro cover, tra cui quella di “Heartbreak Road” di Bill Withers, morto ad aprile scorso. E suonato da Sean Rowe come al suo solito, solo voce e chitarra, è tutto un altro pezzo.  

Taylor Swift, The National – “Coney Island”
Nel 2020 Taylor Swift ha pubblicato un disco di cui si è parlato moltissimo, Folklore, e che vedo in diverse classifiche di fine anno. Doveva essere qualcosa di molto diverso dal tipo di musica che lei fa solitamente: ci ha lavorato insieme al chitarrista e pianista dei The National Aaron Dessner. Sono due, i chitarristi dei The National: l’altro è il gemello di Aaron, Bryce, quello tra i due più spesso coinvolto in progetti diversi e cose più grandi e apprezzate (con Sufjan Stevens ma anche con l’Orchestra Filarmonica di Londra e di Copenaghen, per intenderci sulla versatilità del soggetto). Ma torniamo al disco di Aaron con Taylor Swift. Ai dischi, anzi: pochi mesi dopo Folklore ne è uscito un secondo, intitolato evermore.

Ora, la voce di Taylor Swift quella è. L’effetto per chi di solito non ascolta cose sue è, come dire, di sostanziale piattezza: per quelle persone cioè l’impressione è che la differenza tra lei che canta in questo disco e lei che canta nei suoi dischi precedenti non sia poi così evidente. Ma per chi ascolta la musica dei The National ci sono cose molto riconoscibili e apprezzabili, in Folklore (il fingerpicking di Dessner in “invisible string”, per dirne una). In evermore c’è persino una canzone suonata dai The National al completo. E lì c’è praticamente tutto, o quasi: l’arpeggio incessante di Dessner (Bryce) alla chitarra, i colpi di Bryan Devendorf alla cassa, la voce baritonale di Matt Berninger.

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