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E poi noi dovremo piantarla

Domenica 25 novembre si terranno in Italia le primarie del partito con la più alta percentuale nazionale di elettori. Non la sorte, ma il buon lavoro di tante persone ha fatto sì che si arrivasse a questo giorno con una lista di cinque candidati che rappresentano oggi quanto di più diverso possa attualmente offrire il nostro panorama politico, a patto di pescare tra le scelte credibili, o perlomeno quelle su cui forse riusciremmo a mettere d’accordo una parte del paese anche più estesa dell’elettorato di quel partito. Per cui è molto probabile, e certamente auspicabile, che a tale consultazione si senta chiamata non solo quella parte della popolazione che in passato ha già manifestato vicinanza al PD, ma anche tutta l’altra, una volta preso atto che le stesse etichette con cui ci ostiniamo a definire i confini della nostra politica (centrosinistra, centrodestra) si sono già ampiamente dimostrate inadeguate nel comunicare e sintetizzare valori e idee di individui e gruppi. Basta avere sottomano i diversi programmi elettorali degli ultimi anni e un buon manuale di filosofia politica per accorgersi che c’è un po’ di tutto dappertutto, che proposte riconducibili a differenti modelli tradizionali della teoria politica, dal socialismo al liberalismo, di fatto convivono nel medesimo programma senza scandalo e, forse, senza neanche consapevolezza. A chi mi chiedesse se è giusto pretendere che a queste primarie votino soltanto gli elettori del PD, risponderei che spingere un ex-elettore di Berlusconi a sentirsi chiamato in causa non sarebbe una colpa ma un grande merito di questo partito, oltre che un successo comunicativo e pertanto (ripeto: pertanto) politico.

Ieri, in un lungo e articolato editoriale, una testata giornalistica nazionale ha espresso una chiara preferenza per uno dei cinque candidati, senza girarci intorno. E lo ha fatto pur consapevole del rischio che gli altri messaggi presenti nell’articolo siano eclissati da quello più breve e più facile da far circolare: quel giornale ti dice chi votare (anzi, a riportarla per bene, dice chi loro voteranno). Ad alcuni basta tanto per spegnere la radio o cambiare stazione. Ed è un peccato, per due motivi: uno, perché molti neppure leggeranno il resto e si perderanno la ciccia, cioè le argomentazioni, che sono sempre più importanti della tesi; e due, è un peccato perché dirti chi votare è esattamente quello che un giornale deve fare. Se in passato abbiamo votato quelli sbagliati, come la storia pare timidamente suggerirci, la colpa certamente non è della politica in sé, e non lo è manco di questo grande contenitore di cialtroni con cui abbiamo rimpiazzato tout court la definizione di “politica”: la colpa è innanzitutto di quei giornali che non ci hanno detto chi votare. E se la cosa ti suona scandalosa, cioè che quelli ti dicano chi votare, c’è da chiedersi come diavolo abbiamo fatto ad arrivare al punto in cui chiedere che un cittadino si rechi al seggio con tutte le informazioni necessarie e con le idee chiare sia diventato perfino scandaloso.

D’accordo, possiamo poi metterci d’accordo sul come dirlo, quanto esplicitamente o implicitamente dirlo; ma pretendere, in nome di questa curiosa idea geometrica di giornalismo “equidistante”, che dal lavoro degli organi di informazione non emerga affatto una posizione politica (che è ben diverso da “appartenenza”, parola orribile), oltre che un controsenso teorico, è volersi proprio del male. Qui occorre chiarirsi e recuperare subito – non oggi, ieri – il senso ultimo dell’informazione e il perché avere una comunità completamente informata è meglio che averne una disinformata o parzialmente informata: perché quella informata fa meno cazzate, tutto qui. Non perché saperne qualcosa di più della guerra arabo-israeliana sia un bene in sé. È la stessa ragione per cui nella scala delle priorità l’informazione oggi dovrebbe stare lì in cima di fianco a istruzione e ricerca, e poi tutto il resto: non per ideologia, ma perché conviene a tutti. Comunque vada a finire, a quel giornale che oggi esprime e motiva una preferenza, quantomeno non potremo domani rimproverare di non essersene assunto la responsabilità ieri. E già questo è un buon punto di partenza: responsabilità. Anche noi, comunque vada a finire, in questo paese dovremo piantarla con un sacco di cose, tutti.

Dovremo piantarla di fare ogni cosa con indifferenza, piantarla di lasciare che altri se ne occupino, credere che non spetti a noi cambiare le cose. Piantarla di intendere il nostro tempo come un’eterna attesa: arrivare a fine giornata, arrivare a venerdì, arrivare a fine mese, come se la sopravvivenza della specie fosse il nostro obiettivo comune. Piantarla di intendere il nostro stare al mondo come guadagnarsi da vivere, credere che quello e basta ci qualifichi come viventi, e ricominciare a chiederci per chi e per cosa stiamo lavorando. A quel punto, lentamente, dovremo ripensare il lavoro un po’ più come dovere e un po’ meno come diritto. Dovremo restituire dignità al nostro senso civico, alle nostre ambizioni collettive, ai nostri spazi di interazione. Recuperare il senso di ciò che facciamo, riscoprire un’etica, anche provvisoria ma solida, a supporto del nostro agire; e, dopo, riprendere a insegnare non soltanto come si fa, ma perché si fa così e non diversamente.

Dovremo piantarla di credere che ci siano gradi diversi di responsabilità nella società civile, che gli “altri” – a turno: le istituzioni, la politica, i sindacati – ne abbiano più di quanta ne tocchi a ciascuno di noi, anche perché quegli “altri” hanno smesso di esistere da quando noi abbiamo smesso di esistere, latitano da quando noi latitiamo, e non il contrario. A tutti quanti, dall’addetto alla manutenzione dell’ascensore al chirurgo plastico, dall’arredatore d’interni allo stagista che fa il turno all’alba per la rassegna stampa che nessuno ascolta, ma magari domani uno lo farà, e poi dopodomani un altro e così via; a tutti quanti, in questo momento più che mai, non c’è che una sola cosa da dire:

fa’

il tuo

cazzo di lavoro.

E se già stai rispondendo che il lavoro non ce l’hai, sei ancora in quel buco nero lì, del tirare a campare, ed è giusto che tu sappia che da lì non ti tirerà fuori nessuno. Tu un lavoro ce l’hai sempre, tutti ce l’abbiamo, e quel lavoro intanto è: fare la cosa giusta, che poi è sempre fare la cosa giusta per sé e per gli altri. Senza questo, non ne verremo mai a capo e nessun voto, per quanto accorto e meditato, basterà a salvarci. Da qualche parte dovremo partire. E queste cose dovremo ricominciare a dircele, senza rispondere urlando. O sghignazzando, che è anche peggio.

Dovremo piantarla una volta per tutte col cinismo e con l’apatia, questa inutile immunizzazione che ha peraltro prodotto il linguaggio più sciatto e sterile della storia del nostro paese: “è tempo perso”, “sono tutti uguali”, “mollare la poltrona”, “mandarli a casa”. Che ci porta all’ultimo ma più importante di tutti i nostri doveri: noi tutti, dal giornalista al vicino di casa, dovremo piantarla di parlare in questo modo, tutti allo stesso modo, e pensare che sia indifferente come diciamo le cose. Dovremo non applaudire a chi ancora parlerà così, ma vergognarci di un uso tanto limitato dell’arma più potente a nostra disposizione. Dovremo dimenticare tutta una famiglia di espressioni che, è vero, racchiudono perfettamente il nostro vivere, ma nel senso che lo imprigionano: “tirare a campare”, “(man)tenere famiglia”, “arrivare a fine mese”. Dovremo svegliarci da questo torpore linguistico, combattere questa pigrizia verbale e accorgerci che non esiste nient’altro se non quello che diciamo. E se tutti diciamo la stessa cosa non significa che abbiamo tutti ragione, ma che proprio non c’è più altro sotto i nostri occhi. E questo non è vero. E se anche fosse vero, continuare a dire che “sono tutti uguali” non diversificherà loro e di certo non diversificherà noi.

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